FERMARSI, FINALMENTE - Joan Tollifson

La pratica spirituale (il cammino senza cammino da qui a qui) si riduce a qualcosa di molto semplice: essere presente, sveglio, aperto.  Dimorare nella semplicità di quello che è. Essere quello che non possiamo non essere: l’accadere di questo momento, proprio così com’è.

Persino dopo tutti questi anni di meditazione e di risveglio e di scrivere libri e tenere incontri di non-dualità, qualche volta mi ritrovo ancora apparentemente a resistere a quello che succede in questo momento e a cercare di scappare via da quel senso primario di sgradevolezza, disagio, irrequietezza, scontento, ansietà, solitudine, depressione, incertezza, senso di vuoto, comunque tu lo voglia caratterizzare.

All’improvviso sono spazzata via in una qualche versione della storia che sono totalmente sola in un vuoto senza senso, che ho rovinato la mia vita. C’è un senso vago e disturbante di star annegando in qualche orribile sentimentalismo appiccicoso. Mi affretto sugli scaffali di libri a cercare qualche libro spirituale o accendo la TV e comincio un distratto zapping, o vado su internet e comincio a leggere articoli di cui non mi importa nulla. Oppure mi rosicchio compulsivamente le unghie e mi sento sempre più incastrata dentro a un conflitto tra il desiderio di smetterla e la soverchiante spinta a continuare. Mi sento congelata e bloccata in solco doloroso da cui non posso fuggire, cercando disperatamente una via d’uscita.

Alla fine mi sovviene di smetterla di fare (o di non fare) qualcosa, di rinunciare a cercare una soluzione o una distrazione, e di essere semplicemente presente, di lasciare che ogni cosa sia esattamente così com’è. Improvvisamente diventa possibile arrendersi completamente all’attualità del Qui/Ora, a non resistere nulla, nemmeno il rosicchiare le unghie in modo compulsivo. Istantaneamente sento il cuore aprirsi.

Questa è la fine dell’aggrapparsi e del cercare, la fine del resistere e dell’evitare, la fine di cercare di aggiustare me stessa e di essere qualcun altro, la fine del cercare di capire tutto o di avere una chiara mappa concettuale. Questo è non sapere nulla e non aver bisogno di sapere. Improvvisamente non c’è più nessun problema. Non c’è nessun me. C’è solo questa presenza spaziosa, indivisa che include tutto, così com’è. Tutto va bene, persino il mordersi le unghie o il sentirsi a disagio o ansiosi. Non c’è bisogno che nulla sia diverso da come è e quando c’è una completa apertura a come è, trovo che non c’è nessun modo particolare di essere. Tutto si sta muovendo e dissolvendo. C’è un enorme senso di sollievo. Il problema era immaginario.

E questo è realmente tutto quello che c’è. Tutto si riduce alla semplicità di quello che è. Essere questo che sta accadendo, questo che non possiamo non essere, semplicemente essere.

Possono volerci degli anni prima che scopriamo questa possibilità di fermarci ed essere immobili, prima di sapere persino che cosa significhi questo fermarsi , questo semplice essere. E poi anche dopo che scopriamo questa possibilità non è sempre disponibile istantaneamente. Naturalmente è sempre disponibile, in un senso, perché è quello che è Qui/Ora, e non siamo mai non qui, anche nel mezzo di quello che sembra essere una contrazione, una resistenza, un disturbo. Non siamo mai realmente nel casino di quello che pensiamo di essere; di fatto non esistiamo come un qualcosa di separato dall’accadere di questo momento.

Ma non sempre ci è chiaro. Spesso la forza dell’abitudine è molto forte, l’illusione è molto convincente, la coazione a cercare e resistere è sopraffacente, e noi sembriamo essere un qualcuno con un problema.

Questa atmosfera interiore ha una spinta molto forte ed è spesso innescata e sostenuta della particolari condizioni del corpo-mente (genetiche, neurochimiche, ormoni, trauma passati e così via). Qualche volta per tutti noi la semplicità e l’apertura del Qui/Ora è apparentemente adombrata dalle storie e i pensieri che turbinano  creando un miraggio tipo un “me” che sembra soffrire di questo o quel problema.

La reazione abituale a quel senso primitivo di disagio è cercare di allontanarsene, cercare di aggiustare il “me”, cercare una soluzione al problema immaginario, di pensare a che cosa c’è di sbagliato, di analizzarlo, cercare una soluzione, oppure cercare un qualcosa là fuori che ci lenirà: una distrazione, un piacere, una risposta soddisfacente, qualcosa per ottundere il dolore. Pensiamo e pensiamo e pensiamo. Ci affrettiamo tra i libri e leggiamo.

Navighiamo in internet, facciamo zapping tra i canali TV, cerchiamo nel frigorifero. Facciamo di tutto meno quello che funziona veramente. 

Ma quando finalmente ci fermiamo non c’è nessun problema e non c’è nessun sé separato che ha un problema. Di nuovo, ci possono volere degli anni prima che ci risvegliamo consciamente dalla trance della separazione, l’incapsulamento e la frammentazione, prima che notiamo l’apertura e la spaziosità che è proprio qui, l’illimitatezza del nudo essere, l’assenza di frammentazione di questo presente accadere, la fluidità e l’insostanzialità di ogni cosa. E anche quando la scopriamo ci dimentichiamo. Ma prima o poi ci ricordiamo di nuovo.

Smettiamo di scappare. Ci permettiamo di essere come siamo. Ci rilassiamo in questo momento lasciando che ogni cosa sia com’è, senza resistere nulla, nemmeno la resistenza. Questa assenza di sforzo non è qualcosa che possiamo forzare con un esercizio della volontà. Non è un qualcosa intellettuale o concettuale che sottoscriviamo come una nuova filosofia o un sistema di credenze. E’ la vitalità energetica dell’essere sempre presente sempre mutevole. E questa presenza viva aperta, senza discontinuità non è una destinazione lontana che speriamo prima o poi di raggiungere, ma quello che è il Qui/Ora.     Così questo risvegliarsi, questo arrendersi è un rilassarsi in quello che senza sforzo si sta presentando, questo momento eternamente presente, così com’è, da cui nulla è separato.

E quando ci dimentichiamo, quando sembra che siamo incastrati nella confusione e nella disperazione, non è qualcosa da prendere personalmente come un segno di fallimento. E’ semplicemente un movimento condizionato atmosferico che non ha nessun proprietario. Si dipanerà da sé al suo passo e coi suoi tempi. Il meglio che possiamo fare è semplicemente lasciarlo essere com’è, lasciarlo passare, essere presenti quando possiamo e avere compassione per noi stessi e per ogni altro quando questo non è possibile, quando il condizionamento di chiudersi e scappare via è soverchiante. Aiuta molto vedere che talvolta sentirsi persi è parte della danza    e che nulla è veramente un nemico, una distrazione, un fallimento. La luce e l’oscurità vanno insieme come un accadere senza soluzione di continuità .
Quindi, di nuovo, tutto si riduce a una cosa molto, molto semplice: Essere sveglio. Dimorare nell’accadere di questo momento esattamente così come è. Rilassare il bisogno di capire o di rendere le cose diverse da quello che sono. Aprire il cuore. Semplicemente questo, proprio qui, proprio adesso.

http://www.joantollifson.com/writing12.html